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Il coma come lungo addio

21/06/2010

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

“Penso che il coma sia una sorta di rifugio quando tutto diventa troppo intollerabile, ma è ancora troppo presto per morire... Ho avuto spesso l’impressione che le persone in coma offrissero in quel modo ai loro cari il tempo di prepararsi alla separazione definitiva”.
E’ l’interpretazione che ci propone Marie de Hennezel in “La morte amica”, Rizzoli, 2007. Psicologa presso un reparto di cure palliative a Parigi, ci dà una lettura non in linea con la medicina dell’evidenza, ma stimolante dal punto di vista emotivo e affettivo, perché frutto di un lungo lavoro di supporto emotivo accanto ai malati terminali. E perché, soprattutto, dà un senso alla nostra presenza vicino, e in contatto, con la persona malata, con una carezza, con un abbraccio.
Noi non sappiamo quanto e che cosa una persona senta in quella condizione. Ho assistito persone in coma, a me molto care: e il cuore mi dice come l’incoscienza profonda del coma, in taluni casi, possa essere davvero “uno stato misterioso” e come occorra essere “sufficientemente umili per rispettare quello che non si riesce a comprendere”. Soprattutto, non bisogna arrendersi al pensiero tremendo secondo cui ogni comunicazione è finita. Non è così. C’è un continuum, in questo stato del cervello, in cui possiamo ancora comunicare con le carezze, il massaggio gentile, le parole sussurrate, il cantare piano, se questo ci era familiare. Forse nel coma – di cui esistono peraltro vari gradi di gravità e “profondità”, correlati al tipo di lesioni cerebrali che lo sottendono – la persona non comprende quello che diciamo, ma ne coglie ancora il tono emotivo e sa ancora riconoscere tra mille chi è la persona che parla, come alcuni studi sembrano suggerire. Ne riconosce forse ancora il profumo. Il profumo di vita. Non sappiamo. Ho visto una zia molto amata riemergere dal coma profondo al profumo del calicanthus che le avevo portato in pieno inverno. E morire poco dopo aver detto, con un ultimo sussurro e un lieve sorriso: “Oh, il calicanthus!”. Ho visto mia madre in coma lasciare la vita con una lacrima, dopo un lungo, tenero massaggio alle mani e alle braccia, mentre le cantavo piano piano un canzone che le piaceva molto. La notte dopo l’ho sognata felice, sorridente, radiosa, in un sogno lungo da cui non mi sarei staccata mai. Quel sorriso è la sua benedizione e mi accompagna sempre.
Noi non sappiamo. Ma è importante stare vicino, fino all’ultimo battito, se è possibile, quando è possibile, con una fiducia sul senso di esserci che va oltre quello che oggi crediamo di sapere. Nello stesso tempo, quello stare vicino, non è un aggrapparsi – anche se a volte la persona amata, un figlio, un amore, un amico – ci lascia troppo presto e noi non siamo pronti, non lo siamo ancora. “Forse – suggerisce Marie – la persona in coma ci sta chiedendo allora il permesso di poter andare via”. Non è un trattenere: non è nelle nostre possibilità, anche se lo vorremmo. Oppure ci sembra lo sia, quando una persona riemerga da mesi o anni di coma profondo. Noi non sappiamo. Mi fa pensare molto quando le persone che ne sono uscite sostengono di aver sentito tutto ciò che si diceva intorno a loro e di aver percepito l’affetto delle parole e dei gesti. Un’amica carissima, riemersa da una situazione disperata, mi ha detto che di tutto quel mese e mezzo in rianimazione ricorda solo una donna che l’accarezzava e le diceva di stare tranquilla, che avrebbe pensato lei a sua figlia. Che la situazione era grave, ma c’era speranza. “Quell’abbraccio – mi ha detto dopo – mi ha dato tanta forza, mi ha fatto sentire che era troppo presto per andare. Non so cosa sia successo, ma piano piano ho sentito le forze tornare” (era totalmente paralizzata e intubata per una gravissima e improvvisa sindrome neurologica, la Guillain Barré, e un’emorragia cerebrale).
Sembra che un lavorio interiore prosegua nei sotterranei dell’essere. E’ uno stato misterioso, il coma, che è giusto rispettare ed ascoltare, dal punto di vista umano, emotivo, affettivo, perché vi accadono forse cose assai importanti, che ancora non capiamo. Noi non sappiamo. Credo anzi che il pensiero di Marie de Hennezel sia più ampio e profondo: bisogna imparare a lasciare andare le cose belle della nostra vita, siano esse una persona che muore, una casa amata, un sogno a lungo coltivato e non realizzato. Non è rassegnazione sconsolata, ma accettazione consapevole – e quanto faticosa – del limite che caratterizza la nostra vita: che anela alla crescita, alla conquista, alla felicità, e continuamente si riconfronta con l’assenza, la perdita, la sconfitta, la disillusione. Fatta, come il respiro, di espansioni, di inspirazioni, in cui la vita ci entra nel corpo e nella mente come una folata di vento profumato che riempie i polmoni di energia e il cuore di felicità, e di implosioni, di espirazioni, in cui lasciamo andare le tensioni, ma anche desideri e avidità. E possiamo ritrovarci soli. Ma non siamo più soli se dentro di noi abitano per sempre le persone che abbiamo amato e sono andate via, i sogni che abbiamo forse solo sognato, i profumi e la musiche che hanno accompagnato i momenti di luce. Ripensiamo al coma come uno stato di dolore immenso, certo, ma anche come un tempo sospeso, per ricomporre affetti e amori lacerati e battuti dalle intemperie della vita. E un dono misterioso per ringraziare, un’ultima volta, per i giorni felici.

Morte e mortalità Rapporto con il malato Riflessioni di vita

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